Diario di don Vale da Amatrice

Lunedì 5 settembre ore 9.45

Sono qui.
Amatrice

Lunedì 5 settembre ore 12.27

Amatrice

Quando arrivi in una zona terremotata c’è sempre un momento , un triste momento, in cui si sente uno stacco. Uno stacco dal mondo reale e quotidiano alle realtà colpita e ferita dal terremoto. Trovi cioè la quotidianità degli ambienti di sempre, ma feriti, colpiti e stravolti da quanto sta accadendo.
Trovi mezzi di soccorso, protezione civile, carabinieri, vigili del fuoco, polizia, croce rossa, trovi tutto….trovi le tendopoli, le case colpite, distrutte, muri cadenti, crepati.
Trovi una realtà che immagini come doveva essere, e che ora è quella che è.
Si sente uno stacco vero e proprio, un momento in cui entri nel dramma, nel dolore, in una quotidianità che è stravolta.
E quindi entri anche tu in tue abitudini che, almeno finchè sei qui, sono per forza cambiate e stravolte.
È come se si entrasse in un altro mondo.
Surreale.
Perché lo è surreale.
Si sente la sofferenza e l’assurdità di una terra, che colpisce e uccide senza sapere neanche lei il perché. Noi crediamo che la terra, anche lei, deve essere redenta da Dio. Quanto si sentono vere queste parole, qui, in queste situazioni.
Qui ad Amatrice la sofferenza sembra ancora più moltiplicata e profonda. Tanti, troppi morti. Tante ferite che hanno bisogno di cure. E non mi riferisco alle ferite dei corpi.
La prima impressione arrivando qui non è quella di un terremoto. È quella di una guerra. Le case non sono solo distrutte. Sembrano letteralmente esplose.
Come se fossero bombardate.
Di terre terremotate purtroppo ne ho viste molte in questi anni. Mai avevo visto quello che ho trovato qui.
Un autentico scenario di guerra.
E se è così per le case, quanto devastante dentro deve essere, nel
cuore.
Stamattina ho incontrato per caso il sindaco di Amatrice. Un uomo forte. Mi sono fermato alcuni minuti a parlare con lui. Lui che mi raccontava che da subito si è reso conto di quanto immensa era questa tragedia. Uscito di casa ha visto distrutta la porta ultracentenaria della città e ha pensato: Amatrice non c’è più. Un uomo che parla con la sua gente. Presente. Grande.
Ho incontrato alcuni bambini che facevano attività. Bambini provati. Che portano dentro i segni di quanto accaduto.
Devo interrompere.

Lunedì 5 settembre ore 22.19

Amatrice 2

La terra ha tremato anche oggi. Una piccola botterella, si, ma sufficiente. Giusto per ricordare come stanno le cose e chi comanda qui.
Sentire sotto di te il rumore sordo di una terra inquieta e sentire che la pietra su cui sei seduto è come se qualcuno tentasse di spostarla, fa pensare a come questo terremoto faccia vacillare certezze e tutto.
Poi ha piovuto un po’, con le temperature che sono passate dal caldo da maglietta al freddo da maglione.
E sotto a questa pioggia battente ed insistente il lavoro non si ferma. Chiusi nelle tende gli abitanti. Fuori al lavoro chi deve lavorare. Senza sosta. Oggi qui vicino a noi hanno trovato l’ennesimo morto. Si scava ancora, chissà.
A morire per ultima deve essere sempre la speranza.
Qui non manca nulla e, allo stesso tempo, manca tutto. Le persone sono assistite. Eppure.
Quanti esempi di lotta e di tener duro.
Vigili stremati ma sorridenti. Volontari all’opera senza orari. Quando vedi certi esempi silenziosi che fanno “massa” con la loro individualità, ti viene da essere orgoglioso di essere italiano.
Spunta un cane dei vigili del fuoco. Si piazza lì fuori dalla tenda dove si mangia. Tutti passano, lui porge la zampa. Forse spera anche in un boccone in regalo. O forse anche lui respira un’aria diversa, fatta di dono, e non di pretese.
Penso alla preside della scuola che, in mezzo a tutto questo, tira fuori il meglio di sè per raccogliere le famiglie, i bambini, i ragazzi, per parlare con loro. E continua a ripetere: il 13 riapriamo, deve essere una festa.
Come stride questa parola: quando mai tornare a scuola potrebbe essere una festa?
Ma lei continua e nel suo sorriso contagioso ci vedi la voglia di non arrendersi. Il pensiero che riaprire non è solo una vittoria contro il tempo. È una vittoria contro il fermarsi, il disperdersi.
Una vittoria così, certo che è una festa!
Penso a quella coppia di anziani che in silenzio hanno accostato le loro due brandine. Uniti anche in questa incertezza. Senza più la loro intimità. La loro unica intimità ora è la coperta che li copre.
Dopo una vita di lotte e di sacrifici, lì in un angolo di palestra a dormire in mezzo ad altre ottanta persone, nel loro silenzio dignitoso, in una sofferenza che mai diventa peso per chi hanno intorno.
E se ti avvicini per chiedere loro sommessamente se….se….se hanno bisogno di qualcosa…..loro si girano verso di te, riescono anche a tirar fuori un sorriso di ringraziamento.
Potrebbero rispondere sì di quante cose avrebbero bisogno.
E invece ti dicono un semplice: nulla, grazie.
Di fronte a questa dignità, a questo dolore portato così con forza, senza far pesare nulla a nessuno, l’anima si ferma. E ti ritrovi li, in quel silenzio, a pensare e ripensare che, sì, è tutto irreale qui.
Ma ti domandi anche quanto di plastica è la nostra quotidianità di sempre, finta, se non viene riempita da ciò che vale davvero.
Ascolti qualcun altro raccontare che in pochi secondi tutto è andato perduto. Anche la casa antisismica. Perché ti dicono che l’anti sismico ti salva la vita ma non ti salva la casa.
E tu sei lì che cerchi di ascoltare e di capire. Se in mezzo a quelle parole c’è come la disperazione di ciò che è andato perduto. O il sospiro di sollievo di poter essere qui a raccontare. O un misto di delusione e sollievo i cui confini non sono comprensibili e rimangono misteriosi, sconosciuti forse a loro stessi per primi.
Nel cielo ora sono ricomparse le stelle. Si vedono poco, come poco si intravvede all’orizzonte un futuro, lontano come queste stelle.
Alcuni di loro si domandano che senso ha il loro futuro, se sotto le macerie hanno perso figli e nipoti.
Perché loro e non noi, si domandano.
Si domandano perché la natura non abbia fatto il suo corso naturale prendendo i nonni prima dei figli e dei nipoti.
Scende il buio, scende un’altra notte. Si spera di dormire stanotte. Domani sarà un altro giorno.
Senti buon Dio, tu il senso di tutto questo ce lo devi spiegare. Senza nasconderti dietro le nuvole. Senza le promesse di un paradiso futuro.
Tutto questo è qualcosa di più grande di questi cuori. Non ce la possono fare. Dove sei buon Dio? Come si fa ad uscirne?
Qui c’è ancora da fare. Più tardi mi addormenterò pensando ad una cosa.
Che ogni persona ha il diritto di svegliarsi al mattino senza maledire il giorno che arriva. Senza la tremenda incertezza di cosa sarà.

Martedì 6 settembre ore 7.26

Un uccellino si è posato nello squarcio di una casa distrutta. Ha cinguettato ed è volato via.
Più forte della distruzione c’è la vita.
Più forte del dolore c’è la fiducia, la speranza.

Martedì 6 settembre ore 16.24

Amatrice 3

Stanotte due scosse forti.
Una alle 23:30.
Una dopo le 2.
Molti si sono svegliati. Per l’ennesima volta.
In mezzo a tante incertezze di queste persone ci mettiamo pure questa. Quale?
Penso a quella sensazione che hai quando chiudi la luce e vai a letto.
O quando chiudi la porta di casa e fuori ci può essere il mondo intero ma in quel momento tu chiudi la porta, e dentro casa hai tutto.
Chiudi fuori tutto ciò che in qualche modo è estraneo.
Dentro rimani tu con i tuoi cari, con le tue cose.
Qui le case non esistono più.
Stanotte mentre pensavo alla poca intimità rimasta a queste persone, arriva il primo colpo.
Tutto si muove.
Anche una gru, immobile e spenta, ha voluto far sentire la sua voce, il suo scricchiolio metallico.
Sono lì fuori, con alcuni medici all’aperto.
Ci guardiamo, sorridiamo, la prendiamo come viene. Uno di loro dice: Epperò, c’ha dato ‘na bella bottarella eh?
Nel campo c’era già silenzio a quell’ora, le luci erano già spente.
Almeno a luci spente si potrà stare un po tranquilli?
E uno.
Il tempo di prendere sonno. La terra è sveglia e impedisce di dormire.
Almeno le ore della notte potrebbe risparmiarle. Ed è invece proprio in quelle ore che si fa viva.
Come pochi giorni fa.
Come quattro anni fa.
Come sette anni fa.
Tutto si muove di nuovo.
C’è qualcuno che non ha mai sentito una scossa, e si spaventa. Altri si svegliano. Le luci si accendono. Per spegnersi subito dopo.
E due.
Cuori preoccupati, che non sanno ancora se andare via per l’inverno o no. Dove saranno. Ne discutono spesso. Chi vuole andare. I più no, vogliono stare.
Il freddo si fa sentire e ci si rende conto che presto una decisione è da prendere.
All’alba il sole non è ancora sorto. Tra chi russa e chi si rigira, si vive un intreccio di vite e di pensieri inespressi.
Nell’aria si sente ancora il rumore della notte, il fremito che dalla terra è passato negli animi di ognuno.
Poco più tardi un vecchietto di novant’anni diventa l’immagine di questo risveglio, l’immagine del futuro.
Davanti ad un bicchiere di latte caldo dice di non aver mai visto nulla di simile in tutta la sua lunga vita.
Ma aggiunge anche che si guarda avanti.
Del resto un terremoto può anche accadere, dice, e io sono vivo.
Proprio la notte, rotta dal rumore della terra.
Proprio in una notte le tenebre sono state vinte dalla Luce.
Il sorriso di questo viso pieno di rughe mi porta il sorriso di Dio.
Quegli occhi così… non saprei come esprimerli… Quegli occhi si chinano sul bicchiere di latte e due biscotti.
Ma in mezzo a tutto questo, sanno sorridere.
Guardare avanti.
A novant’anni.

Mercoledì 7 settembre ore 4.39

Amatrice 4

Gesù, ci facciamo una bella chiacchierata? Sono un po le cose di cui vorrei parlare con Te.
in certi momenti di vita abbiamo bisogno di quella forza che solo Tu sai donare.
Affidarci a Te è la strada per trovarti accanto e per trovare il modo per vivere ogni cosa, gustare ogni gioia fino in fondo, e affrontare ogni difficoltà, anche quella più difficile da vivere.
Vorrei portarti queste persone, questi volti. Questi cuori che confidano in Te. Molti di loro credono in Te e si affidano. Molti non sanno cosa pensare. Altri di Te non vogliono nemmeno sentirne parlare.
In certi momenti sai, mi viene da dire: come posso dargli torto? Si, è vero, Tu non hai reso perfetta la natura, non hai eliminato il male dal mondo. Ma una calmatina alle acque del mare l’hai data. Che dici, questa gente una calmatina a questa terra si aspetta che Tu gliela dia.
Nel tuo volto che soffre vedo i volti di chi soffre. E nel tuo volto che soffre vedo quanto Tu ci ami. Vedo che Tu non ti sei fatto uomo per finta. Ma sei venuto e hai vissuto tutto con noi. Anche la pesante quotidianità.
Tu hai vissuto tutto, sempre con speranza. Anche la notte più dura l’hai vissuta affidandoti al Padre.
Ci sono tanti perche che aspettano risposte. E c’è una vita da vivere e da affrontare, anche senza aspettare queste risposte.
Solo Tu puoi dare la forza in tutto questo. A Te ci affidiamo. Aiutali Tu.

Mercoledì 7 settembre ore 5.29

Amatrice 5

Ieri giornata di giri nelle varie frazioni. Fino ad Accumoli ed Arquata.
Trovi volontari da tutta Italia, persone che si dedicano così, senza aspettare nulla.
Stupendo.
Questa gente ha bisogno di sentire qualcuno accanto.
Senza clamori, solo con calore.
Ha bisogno di non sentirsi sola e abbandonata.
Come ognuno di noi nella piccola quotidianità.
Verrebbe da dire che alcuni bisogni sono gli stessi. Gli stessi.
Amplificati da uno spaccato di vita drammatico.
Ma sono drammaticamente gli stessi.
Passano due persone tirate a lucido, giacca, cravatta, telecamere dietro. Non so chi siano. Magari saranno lì anche a fare del bene. Ma mi sa tanto di passerella mediatica.
Come stride questo con i cuori di questa gente. Con le loro aspettative.
In queste situazioni c’è bisogno solo di sporcarsi le mani.
Ho avuto la tentazione di passare loro accanto e di dargli una schizzatina di fango. Poi ho lasciato perdere.
Meglio pensare ad altro.
Al cuore da sfangare di queste persone.
Ho però pensato che spesso sono queste le immagini che arrivano a casa.
Mi hanno interrogato sulla mia autenticità. O sulle sottili passerelle della vita.
Basta voltarsi e ti ritrovi nel mondo reale, quello vero.
Basta salire in macchina per incontrare nuovi volti, nuove persone, e ti ritrovi in mezzo ad altri paesi, frazioni, case isolate, in cui i segni di questo terremoto sono evidenti.
Quello che colpisce non è solo lo scenario di guerra che appare.
Quello che colpisce è la piccola quotidianità.
Passiamo da una frazione di Amatrice e mi fermo un attimo.
I volontari che sto accompagnando rimangono a bocca aperta di fronte a quello che vedono. Forse non hanno mai visto un terremoto.
Chiedo a loro un istante. Mi fermo a riflettere.
Vedo una casa con una macchina parcheggiata sotto. Una casa sventrata, con le macerie che stanno seppellendo le auto.
I muri aperti.
Dentro ancora un letto disfatto, e un quadro appeso.
Un quadro ancora appeso.
A volte un terremoto riesce a demolire muri ma non schioda una cosa piccola così.
Uno squarcio sulla quotidianità di una famiglia.
Una quotidianità violentata dal terremoto.
Ora anche così, alla mercè di ogni sguardo che passa. Esposta alla curiosità.
Violata ancora.
Viene come da stendere un lenzuolo e coprirla. Perché non sia violata ancora.
Perché questo dolore rimanga composto, riservato.
Tenti di immaginare come deve essere andata la sera prima. Chissà se hanno figli, se sono sposati.
Il papà che torna a casa, che parcheggia. La moglie in casa ad aspettare con i bambini. Saranno stati sereni. O forse stanchi dalla giornata. Chissà.
Sta di fatto che quella piccola quotidianità si è interrotta così.
Dopo una sera come le altre.
Giriamo per le frazioni, facciamo chilometri e chilometri per raggiungere altre storie, altri volti, altri cuori.
Incontri occhi che si posano sulla croce sul petto, poi ti guardano.
A volte senza dire nulla dicono tutto.
Trovi tanta voglia di rialzarsi, di combattere. Come un lottatore nelle antiche arene. Quando provato e colpito si rialza.
Ferito ma deciso a combattere.
Questo siamo noi.
Questo sono loro.
Ricordo una ragazza tanti e tanti anni fa. Mi raccontava la sua storia di vita, una storia disperata.
Alla fine mi diceva: la mia vita è a pezzi, vero?
E io le ho risposto: no, la tua vita non è a pezzi. La tua vita è in frantumi.
Ma quando ti si rompe qualcosa puoi fare due cose.
Puoi prendere tutto e buttare tutto nella rumenta.
Oppure puoi sederti li, con calma,
raccogliere i pezzi e cercare di rimetterli insieme.
Pian piano, con fatica, con pazienza.
Se vuoi lo facciamo insieme, con l’aiuto del buon Dio.
Ripercorri chilometri, altri giri, torni alla base e ripensi che a casa si torna cambiati dentro.
Poi magari dopo poco tutto riprende come prima.
I volontari aprono il loro cuore e raccontano di se, delle loro difficoltà. Ma tutto si ridimensiona di fronte a questo.
Come se fossimo tutti sulla stessa barca. A remare insieme, chi più, chi meno, come ognuno è capace.
Ci vuole pazienza.
Bisogna sedersi lì.
Guardare al Cielo.
E rimboccarsi le maniche.